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Opzione di vendita a prezzo fisso e divieto di patto leonino: una convivenza possibile

Published on 23rd Oct 2014

Nel ripercorrere l’evoluzione della recente giurisprudenza ambrosiana in merito alla legittimità delle clausole di opzione puta prezzo predeterminato e non variabile, si trae occasione per evidenziare le incongruenze e inefficienze del vigente orientamento dottrinale e giurisprudenziale che, individuando la ratio del divieto di Patto Leonino in un interesse generale alla corretta gestione delle società, estende l’efficacia del divieto non solo alle società di capitali ma anche ai patti extrasociali.

Molto si è scritto negli ultimi due anni in relazione ad alcune decisioni di corti di merito che hanno dichiarato, ovvero escluso, la nullità di opzioni di vendita di partecipazioni societarie a prezzo fisso, in quanto costituenti violazione indiretta del divieto di patto leonino. Ai fini del presente scritto per opzione di vendita (1) a prezzo fisso si intende una opzione ex art.1331 c.c. rilasciata da un socio a favore di un possibile futuro socio ovvero di un altro membro della compagine sociale, ed avente per oggetto la cessione di una partecipazione societaria ad un prezzo pari al prezzo originariamente pagato per acquistarla (2). Senza alcuna velleità scientifica, in quanto anticipati da più completi studi, in questo scritto ci si propone di analizzare alcune delle criticità che non sono state ancora risolte da un indirizzo univoco della giurisprudenza, anche al fine di sottolineare come questa complessa vicenda, dai fini risvolti giuridici, abbia di fatto una rilevante influenza, come si dirà negativa, sul “mercato” delle operazioni societarie.

Questa situazione di incertezza (sopravvenuta) in merito alla legittimità della opzione put a prezzo fisso, colpisce infatti una pattuizione che ha trovato una rilevante applicazione nel settore, proprio al fine di agevolare operazioni di investimento in capitale. 

Il divieto di patto leonino e la sua ratio

L’art. 2263 c.c., in tema di ripartizione dei guadagni e delle perdite tra soci di società di persone, sancisce che «Le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite si presumono proporzionali ai conferimenti (…)». Ne consegue la libertà per i soci di società di persone di concordare partecipazioni non proporzionali ai diritti conferiti, con il solo limite del rispetto del divieto di patto leonino, così come definito all’art.2265 c.c., ai sensi del quale: «È nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite» (3). Non è oggetto del presente scritto un’analisi del contenuto dell’art. 2265 c.c., essendo ai nostri fini sufficiente ricordare che il divieto si estende sia al patto che esclude la sola partecipazione agli utili che a quello che prevede l’esclusione dalla sola partecipazione alle perdite.

Originariamente, quando le condizioni socio economiche erano completamente differenti da quelle odierne, la funzione del divieto era individuata da un lato, per quanto riguarda l’esclusione dalla partecipazione alle perdite, nella esigenza di tutelare i soci da comportamenti usurari, dall’altro, in relazione alla ipotesi di limitazione della partecipazione agli utili, nella lesione della causa del contratto associativo che ne sarebbe derivata.

Nel tempo tale dicotomia ha perso il suo significato e dottrina e giurisprudenza hanno optato per una rinnovata ratio unitaria, individuata in “ragioni di politica economica” costituite dall’interesse generale del sistema ad un corretto esercizio del potere di gestione del socio e quindi della corretta amministrazione delle società. Secondo tale impostazione l’esclusione del rischio del socio di subire perdite ne condizionerebbe il comportamento a tal punto da esporre la società partecipata ad una gestione non avveduta (4).

Meno chiara è l’applicazione del principio all’ipotesi di esclusione dal diritto agli utili che, secondo tale ricostruzione della ratio normativa, comporterebbe lo stesso rischio sistemico causato questa volta dal disinteresse del socio alla gestione della società. L’assunto, così come formulato, è difficilmente criticabile se valutato in teoria ma, come si è accennato nell’incipit, la sua generica e teorica valenza mal si concilia con le esigenze pratiche che portano normalmente all’adozione di questo tipo di clausole nell’ambito di accordi extrasociali. Come si dirà affrontando la natura ipoteticamente elusiva di queste clausole, non corrisponde alla realtà contrattuale attribuire all’investitore, titolare di una opzione put a prezzo fisso, come obiettivo quello di essere esentato dalla partecipazione alle perdite con lo scopo di poter adottare una condotta molto disinvolta nella gestione della società. È vero al contrario che la clausola svolge una autonoma funzione nell’ambito dell’accordo contrattuale extrasociale relativo alla entrata nel capitale sociale di un nuovo soggetto, ruolo spesso determinante per tale decisione. Ma in dubbio si può porre la stessa ipotesi, fondante della teoria discussa, secondo la quale il socio che non partecipa alle perdite sarebbe portato a mantenere un comportamento eccessivamente improntato al rischio imprenditoriale e, comunque, ad adottare scelte gestorie non corrette ovvero disinteressate, visto che il medesimo “disinteresse” può essere provocato da altre fattispecie contrattuali e, addirittura, da ipotesi di contratti tipici. Torneremo su tali aspetti nel prosieguo.

Il recente indirizzo del Tribunale di Milano

Nel dicembre del 2011 una decisione del Tribunale di Milano, nel decretare la nullità di una opzione put a prezzo fisso, rinnovava l’interesse, per non dire il panico, degli operatori del diritto in relazione all’applicazione del divieto di patto leonino ad accordi di investimento.

Minore interesse attiravano alcune decisioni del medesimo Tribunale che, seppur coeve alla prima, se ne discostavano decisamente. L’esame di tali decisioni, che pur non rappresentando una completa rassegna delle recenti pronunce di merito sull’argomento sicuramente costituiscono i principali precedenti ad oggi citati e commentati, sono particolarmente funzionali alla trattazione degli argomenti che seguiranno (5). Punto di partenza di tale esame, tuttavia, non può che essere la sentenza Cassazione civile, sez. I, 29 ottobre 1994, n. 8927 (6), vero e proprio archetipo della recente giurisprudenza in materia di applicazione del divieto di patto leonino. Si tratta del famoso caso Laminatoio di Buttrio nel quale la Corte di cassazione, concludendo per il rinvio al giudice di merito, indica i criteri ai quali si sarebbe dovuto attenere il giudice del rinvio, creando così il precedente di riferimento per le successive pronunce. Nel rinviare al giudice di merito la Corte stabilisce tre criteri principali per il corretto giudizio di applicabilità del divieto di patto leonino ad una fattispecie concreta:

  1. normalmente la pattuizione deve essere di rango statutario, cioè endosocietario, ed essere caratterizzata dalla natura totale e costante della esclusione della partecipazione del socio dagli utili ovvero dalle perdite ovvero da entrambe;
  2. quindi esulano dal divieto le pattuizioni che regolano la partecipazione agli utili o alle perdite in maniera difforme dalla misura della partecipazione da questi detenuta;
  3. l’effettiva violazione del divieto deve essere valutata nella sostanza e non come mero giudizio formale (7).

Passando quindi all’esame dell’ipotesi in cui la clausola incriminata sia contenuta in un accordo extrasociale la Corte afferma che, verificata la sussistenza degli altri requisiti, il giudice di merito deve procedere ad una attenta valutazione in fatto della natura e scopo della pattuizione extrasociale.

Delineando i limiti di tale attività di verifica la Corte chiarisce che la sanzione di nullità può essere applicata solo qualora la pattuizione abbia la funzione essenziale di eludere l’art. 2265 c.c. (8), in quanto negozio in frode della legge ex art. 1344 c.c.

Secondo la Corte tuttavia quanto la funzione elusiva non è così evidente ed incontestabile, il giudice di merito deve procedere con una attenta valutazione della clausola e del contesto contrattuale nella quale essa si inserisce, per verificare la possibile esistenza di una funzione autonoma e meritevole di tutela ex art. 1322 c.c.  La stessa sentenza, a sostengo della possibile esistenza di una autonoma  meritevolezza della clausola anche apparentemente lesiva del divieto, fa riferimento ad alcuni casi, seppur risalenti, nei quali si era ritenuta la pattuizione parasociale valida e legittima, in considerazione della sua autonomia rispetto al contratto sociale ed alla meritevolezza dei fini perseguiti dalle parti.

Proprio nell’ambito di tale valutazione la Corte ha modo di rammentare che la ratio del divieto di patto leonino «deve ravvisarsi nel fatto che la partecipazione agli utili ed al rischio dell’esercizio dell’impresa costituiscono il migliore incentivo all’esercizio avveduto e corretto dei poteri amministrativi», in adesione all’indirizzo dottrinale e giurisprudenziale già descritto. Come conseguenza logica della ratio descritta la Corte giunge a delineare un altro requisito, che si aggiunge a quello di assolutezza e costanza, per la illegittimità della pattuizione, costituito dalla effettiva possibilità per il socio di incidere sulla gestione della società (9), sì che ove il socio non abbia modo di influire sulla gestione societaria il divieto non può operare (10).

Applicando tali principi al caso in esame, si può dire che, secondo la Corte di Cassazione, affinché una clausola extrasociale di opzione put a prezzo fisso possa essere dichiarata nulla, è necessario in primo luogo procedere con la verifica della idoneità lesiva, cioè della sussistenza della natura totale e costante (11) della esclusione seppur indiretta nonché verificare se il socio titolare del diritto di opzione put possa o meno influire sulla gestione in senso lato (12) societaria; quindi, assodata la idoneità lesiva, si deve analizzare se detta pattuizione, nell’assetto contrattuale complessivo, sia dotata o meno di una sua autonoma meritevolezza ex art. 1322 c.c. rispetto al contratto sociale.

Come detto l’argomento ha riguadagnato l’interesse degli operatori del diritto, in quanto riproposto da una ordinanza del Tribunale di Milano, la così detta pronuncia Sopaf (13), la cui pubblicazione ha suscitato non poco clamore nel settore della finanza straordinaria. In effetti l’ordinanza Sopaf, pur richiamando pedissequamente i principi dettati dalla Corte di Cassazione nel caso Laminatoio di Buttrio, li applicava con particolare rigore ad una pattuizione extrasocietaria di opzione put a prezzo fisso, sì da porre in dubbio la validità di tutte le opzioni put a prezzo fisso (14).

Il Giudice milanese era chiamato a giudicare la legittimità di una clausola, inserita in un accordo parasociale, che prevedeva il diritto, non soggetto a termine, per il socio finanziario di vendere la propria partecipazione al socio originario della società target ad un prezzo pari, quanto meno, al prezzo inizialmente corrisposto incrementato degli eventuali versamenti a patrimonio netto che il socio avesse effettuato e di interessi convenzionali. Il Tribunale reputava fondata l’eccezione di nullità sollevata dal socio gravato dall’opzione, posto che: « - da un lato risulta condivisibile l’orientamento già espresso in Cass. n. 8927/1994 quanto alla rilevanza del principio ex art. 2265 c.c. anche nel settore delle società di capitali e anche in relazione a patti tra scopi estranei allo statuto sociale ma comunque comportanti l’effetto leonino. - d’altro canto nel caso di specie, visto il carattere costante e incondizionato della esclusione di DEA dal rischio di perdite della partecipata, non pare ravvisabile alcuna specifica autonoma funzione dei patti in discussione meritevole di tutela, gli stessi patti risolvendosi invece in una sorta di illimitata garanzia rilasciata da SOPAF».

Come ogni decisione di merito l’ordinanza Sopaf meriterebbe integrale lettura per comprenderne il reale valore di precedente (15), ma non si può evitare di sottolineare, pur rinviando al prosieguo dello scritto più approfondite considerazioni sul punto, come la decisone giunga a ritenere comunque l’opzione put a prezzo fisso elusiva dell’art. 2265 c.c., in assenza di valutazioni specifiche in merito tanto alla possibile autonoma meritevolezza della pattuizione quanto alla possibilità per il socio titolare della opzione di influire sulla gestione della società e all’effettivo esercizio di tale facoltà. Prova ne sia che lo stesso Giudice riconosce di discostarsi da precedenti anche del medesimo tribunale.

Il riferimento è all’ordinanza emessa dal Tribunale di Milano pochi mesi prima, nel giudizio che vedeva opposta la società Mittel Generali Investimenti S.p.A. ai soci originari della società Greenholding S.r.l. (16). In tale pronuncia il medesimo Tribunale, pur in adesione anch’esso ai principi dettati dalla sentenza della Suprema Corte, si discostava radicalmente dall’ordinanza Sopaf, proprio in merito alla valutazione della meritevolezza dell’interesse tutelato dalla clausola incriminata dichiarando: «Non incorre nel divieto posto dall’art. 2265 c.c. il patto parasociale, stipulato fra il socio finanziatore ed il socio imprenditore e collegato alla compravendita della partecipazione sociale in una società a responsabilità limitata, acquistata dal primo e venduta dal secondo, avente ad oggetto l’opzione di vendita concessa al finanziatore ad un prezzo pari all’esborso da questi sostenuto per l’acquisto della partecipazione, incrementato di un certo tasso di interesse.  Si osservi che il regime vietato dall’articolo 2265 c.c. deve riguardare il rapporto tra società e soci mentre il divieto non incide sull’eventuale trasferimento di partecipazioni, che rappresenta una fattispecie diversa dalla situazione giuridica di titolarità del diritto agli utili di esercizio».

Sempre il Tribunale di Milano, nella persona del medesimo giudice della ordinanza Mittel, questa volta circa sei mesi dopo la pronuncia Sopaf, quasi a voler sottolineare la differente applicazione dei presupposti indicati dalla sentenza Laminatoio di Butrio, tornava a pronunciarsi su di un caso di contestazione di validità di una opzione put a prezzo fisso. Si tratta dell’ordinanza resa nel giudizio cautelare che vedeva opposte la società Assietta Private Equity sgr S.p.A. ai soci originari della società Tecnostamp Triulzi Group s.r.l. (17).

Il caso in esame aveva per oggetto una classica clausola di opzione put a prezzo fisso pari all’investimento posta nel contratto di investimento con il quale si regolava l’accesso nel capitale sociale di un fondo di private equity. Il Tribunale tornava a decretare la legittimità della clausola, oltre che per l’assenza dei requisiti posti dalla Suprema Corte per la sanzionabilità della esclusione del socio dalla partecipazione alle perdite (18), anche in considerazione della funzione svolta dalla clausola, ritenuta meritevole di tutela ex art. 1322 c.c.  Il Tribunale rilevava altresì che il ruolo dell’investitore finanziario si era concretizzato, nella gestione della società, in una funzione di impulso e controllo della gestione, oltre che di finanziamento della attività, tale da escludere che la titolarità del diritto di opzione avesse comportato una condotta irresponsabile del fondo nell’esercizio dei propri diritti.  Anche in questi casi, trattandosi di giudizi di merito, non si può che invitare ad una lettura integrale della motivazione delle ordinanze, ma ai fini del presente studio le tre decisioni del Tribunale di Milano, intervenute nell’arco di un anno, costituiscono prova evidente di come le valutazioni di fatto rimesse al giudice in punto meritevolezza di tutela o all’effettiva o teorica facoltà per il socio di influire sulla gestione, consentano interpretazioni estremamente soggettive, e spesso prive di adeguata motivazione, in danno della certezza del diritto.

Applicabilità del divieto di patto leonino alla disciplina delle società di capitali

Nell’ordinamento giuridico italiano il divieto di patto leonino è espressamente formulato unicamente con riferimento alle società di persone, tuttavia Giurisprudenza e Dottrina, a partire dai primi anni ’80 e con il diffondersi dell’uso di tali clausole in accordi extrasociali, hanno cominciato a dichiararsi favorevoli all’applicabilità di detto divieto anche alle società di capitali (19). In verità non può attribuirsi al caso il fatto che il legislatore abbia scelto di posizionare il divieto nel Libro V, Titolo V, Capo II del codice civile e, ciò che più rileva, abbia evitato quanto meno di richiamarlo in materia di società di capitali. Vero è che il divieto di patto leonino sembra afferire alla stessa causa genetica del fenomeno societario di cui all’art. 2247 c.c. (20), sicuramente principio comune alle società di capitali.  Altrettanto vero è, tuttavia, che il fenomeno associativo nelle società di persone risponde ad esigenze ben differenti da quelle che trovano risposta nel modello delle società di capitali, e ciò proprio per gli aspetti principali che devono essere valutati in materia di applicazione del divieto di patto leonino.

In primo luogo la responsabilità dei soci nelle società di persone è illimitata, mentre nelle società di capitali è limitata al capitale investito. Non può non notarsi come la stessa struttura delle società di capitali tenda a realizzare una deresponsabilizzazione del socio che risulta assai affine a quanto si vuole sanzionare con il divieto di patto leonino. Ma ciò che più rileva è che nelle società di persone i soci sono di regola, proprio per bilanciare la loro responsabilità illimitata, amministratori della società, e addirittura la regola è che l’amministrazione sia conferita disgiuntamente salvo patto contrario.

È quindi evidente che nelle società di persone è più realistico pensare che un socio “deresponsabilizzato” abbia effettivamente la possibilità di indirizzare unilateralmente la gestione societaria. Al contrario le regole di governance delle società di capitali riservano all’organo amministrativo la gestione della società, tanto che l’amministratore è l’unico responsabile nei confronti del sistema, sia esso rappresentato dai soci ovvero dei terzi ovvero dalla società stessa, per atti che, con i ben noti limiti della mala gestio, abbiano arrecato danni a terzi. Tanto è vera tale considerazione che quando il legislatore ha consentito l’interferenza del socio nella gestione della società, come avviene nelle società a responsabilità limitata, ha ritenuto necessario introdurre l’estensione della responsabilità del socio per tale atto gestorio (21).

Non è sfuggito a chi scrive il richiamo al diritto gestorio in senso lato (22), ma l’astrazione del concetto non permette di evitare la critica basata sulla considerazione che la gestione della società di capitali è rimessa al solo organo amministrativo. Si replicherà che tale argomentazione nella sua ingenuità non coglie nel segno, non comprendendo che ciò che si vuole tutelare è la gestione in senso lato, cioè come generale principio di indirizzo, tanto da far risiedere la ratio della norma su ragioni di politica economica, tutela che certo non è garantita dalla disciplina della responsabilità degli amministratori.

Premesso che l’approccio pratico, in quanto tendente alla semplificazione, è sempre tacciabile di ingenuità quello che qui si vuole criticare è che sia una corretta scelta di politica economica ricercare una tutela mirata a prevenire comportamenti solo teorici o comunque non così determinati, determinanti o illegittimi da non poter essere tutelati da altri istituiti (responsabilità amministratori, abuso del diritto ecc..) a discapito della stessa attività di investimento. È quindi evidente che il rischio che un comportamento “deviante” del socio influisca direttamente sulla gestione della società, può essere ipotizzato nelle società di persone mentre, mentre in relazione alle società di capitali appare assai poco realistico.

Prima del 2011, anno di rilancio della nullità delle clausole di opzione put a prezzo fisso, tali perplessità erano fatte proprie da influenti studiosi (23), tanto che le poche pronunce esistenti erano relative principalmente a società di persone ovvero tendevano a concludere per la liceità degli accordi extrasociali relativi a indirette esclusioni di partecipazioni agli utili in società di capitali. Nonostante l’evidente ragionevolezza di tale assunto, le decisioni giurisprudenziali che recentemente hanno riportato all’attenzione degli operatori del diritto le questioni inerenti alla liceità delle opzioni put a prezzo fisso, anche quelle meno favorevoli alla declaratoria di nullità, nulla deducono in merito, neppure quale argomento interpretativo della fattispecie concreta (24), limitandosi a dare per assodata una conclusione che non pare del tutto coerente con il dettato normativo e con la ratio normativa.

Applicabilità del divieto di patto leonino alle pattuizioni extrasociali

Tanto detto in merito all’estensione alle società di capitali dell’efficacia dell’art. 2265 c.c., è dalla applicazione del divieto a pattuizioni di natura extrasociale che emerge con maggiore chiarezza la totale avulsione della descritta teoria giuridica dalla realtà contrattuale.

Partiamo anche in questo caso dall’esame di quanto deciso nella pronuncia Laminatoio di Butrio. Come ricordato in detta decisione la Corte di Cassazione ha richiesto che, a seguito dell’accertamento della sussistenza della assolutezza e costanza della esclusione, fosse verificata la possibile autonoma funzione svolta dalla clausola nell’ambito degli accordi contrattuali, cioè la così detta meritevolezza di tutela. Sul punto la Corte di cassazione è chiara: ove la pattuizione avesse «la funzione essenziale di eludere il divieto dell’art. 2265 c.c.», cioè fosse priva di autonoma meritevolezza di tutela, la stessa costituirebbe un negozio in frode della legge e quindi sarebbe da sanzionare, al pari della clausola statutaria, con la nullità. Di fatto quindi, la complessa ricostruzione della fattispecie porta infine all’applicazione di un generalissimo strumento previsto dal nostro sistema, quello di cui all’art. 1344 c.c. nel quale si stabilisce che «la causa si reputa illecita quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa» (25).

Non è questa la sede per entrare nel merito della ricostruzione sistematica del negozio in frode della legge, sia essa soggettiva o oggettiva o altro ancora, ma è evidente che il problema della definizione dell’ambito di applicabilità della sanzione di cui all’art. 1344 c.c., secondo la Corte di cassazione, viene a corrispondere con il giudizio di validità delle pattuizioni che, direttamente o indirettamente, violano il divieto posto dall’art. 2265 c.c.

Sicuramente così deve essere nel caso di una opzione put a prezzo fisso contenuta in un accordo extrasociale: il negozio di opzione di vendita di partecipazione societarie, come noto, è un negozio a formazione progressiva tipico, in quanto previsto dall’art. 1331 c.c., il cui esito finale è un negozio di vendita di partecipazioni. Si tratta quindi di un negozio o di più negozi autonomi rispetto al contratto societario e dotati di propria legittima causa. Ne è conscia la Corte di cassazione la quale, dopo aver affermato l’applicabilità del divieto agli accordi extrasociali che esplicitamente prevedano l’esclusione dalla partecipazione alle perdite o agli utili in applicazione dell’art. 1344 c.c., immediatamente

opera un distinguo ricordando che ben altra valutazione andrebbe fatta qualora la clausola abbia una sua autonoma funzione meritevole di tutela a norma dell’art. 1322 c.c. Tale snodo essenziale per l’applicabilità della sanzione di nullità alla pattuizione extrasociale è, ad avviso di chi scrive, assai trascurato nelle sentenze che dichiarano la nullità di una opzione put a prezzo fisso per violazione del divieto di patto leonino. L’argomento potrebbe complicarsi molto in diritto (26), ma non è lo scopo del presente scritto, ed al pari della sentenza del Tribunale di Milano nel caso Sopaf, vogliamo adottare un ragionamento meramente logico deduttivo.

Per dimostrare che un negozio apparentemente valido è nullo perché posto in essere per eludere una norma imperativa è necessario che l’esecuzione dello stesso raggiunga il medesimo risultato sanzionato dalla norma imperativa che si presuppone elusa, e che ciò sia fatto con il solo, o quanto meno principale, scopo di eludere il divieto legale. Quanto al raggiungimento del medesimo risultato, la valutazione è abbastanza oggettiva. Viceversa in merito alla valutazione dello scopo che si sono prefisse le parti, l’indagine deve svolgersi su due piani: il primo verificando se la pattuizione poteva avere un altro scopo, cioè svolgesse una funzione diversa da quella vietata dalla norma elusa, il secondo valutando se le parti potevano avere un interesse ad eludere il divieto posto dalla legge.

Ad avviso di chi scrive nella quasi totalità dei casi pratici di presenza di opzione put a prezzo fisso entrambe le valutazioni dovrebbero portare ad escludere il fine elusivo della clausola. Quanto alla valutazione dell’esistenza di uno scopo differente da quello di eludere il divieto, altro non è se non il richiamo posto dalla Corte di Cassazione all’attenta valutazione di una autonoma meritevolezza della clausola proprio nell’ambito della valutazione della autonoma meritevolezza della clausola che si manifesta in tutta la sua evidenza il distacco tra teoria e pratica. Infatti le clausole di opzione put, anche se a prezzo fisso, hanno sempre una autonoma funzione rispondendo ad esigenze contrattuali relative alla circolazione delle partecipazioni, e non alle regole di governance della società, essendo queste ultime un post quam rispetto alla genesi degli accordi extrasociali.

Le funzioni possono essere le più differenti, variando da una più generica funzione di garanzia, non a caso citata anche nella decisione Laminatoio di Buttrio, alle più specifiche esigenze di bilanciamento del complesso degli accordi di investimento nell’ambito delle quali dette clausole sono inserite. Ricoprendo questa funzione, si può affermare che la clausola di opzione put influenza più la decisione del futuro socio ad investire nella società che non il suo successivo comportamento durante la gestione della stessa. Non a caso essa appartiene agli accordi extrasocietari, relativi alla circolazione delle partecipazioni, e non quelli endosocietari, volti a regolare la vita sociale. A ben leggere la stessa pronuncia Laminatoio di Buttrio tale conclusione è perfettamente aderente a quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, laddove afferma «Diversa, però, potrebbe essere la situazione qualora il negozio costituente patto parasociale, pur contenendo una clausola di esclusione da rischi e da utili che verrebbero caricati agli altri contraenti (i quali siano a loro volta soci), abbia una

sua autonoma funzione meritevole di tutela a norma dell’art. 1322 c.c.». Tanto è vero che la Corte è prodiga nel citare esempi di scopi di pattuizioni ipoteticamente elusive che ne giustificano la liceità, tra i quali la funzione di garanzia, di remunerazione della attribuzione temporanea di alcuni diritti sociali da alcuni soci ad altri, ovvero addirittura nell’indicare ipotesi legali nelle quali, di fatto, si realizza una separazione soggettiva tra il titolare di partecipazioni e chi ne può disporre esercitandone i relativi diritti, come nel caso di pegno (27).

Quanto al giudizio sulla possibile effettiva volontà ed interesse per almeno uno dei patiscendi di vio lare il divieto di patto leonino, ad avviso di chi scrive anche questa analisi non può che concludersi con l’accertamento della legittimità della pattuizione per assenza di interesse elusivo nelle parti. Si è in fatti in più punti affermato, ed anzi la considerazione costituisce il primo  fondamento del presente scritto, che nella pratica è assente qualsiasi interesse dell’investitore nel poter esercitare in maniera poco avveduta i poteri gestori della società, in quanto tale comportamento impedirebbe, o comunque metterebbe a rischio, il raggiungimento del risultato principale seguito dagli investitori, siano essi finanziari o industriali (28). Può essere utile sottolineare la differenza evidente di tale negozio dalle più comuni ipotesi di negozio in frode della legge. Si pensi, ad esempio, alla vendita con patto di riscatto, avente per fine l’elusione del divieto del patto commissorio: in tal caso l’interesse ad ottenere una garanzia vietata dalla legge è facilmente individuabile, in quanto tangibile, dimostrabile e tutt’altro che teorico. Non si può concludere senza un accenno al già citato requisito di lesività costituita dalla verifica che il socio titolare della opzione put a prezzo fisso sia in grado ad influire sulla gestione della società.

Nel paragrafo dedicato alla critica della estensione dell’efficacia dell’art. 2265 c.c. alle società di capitali si è già detto sulla difficoltà in diritto di ipotizzare un potere gestorio determinante in capo ad un socio di una società per azioni ma anche di una società a responsabilità limitata. Tale difficoltà assurge ad impossibilità nella realtà contrattuale. Infatti mai, se non in casi di scuola, viene attribuito un diritto di opzione put ad un socio di maggioranza, il quale semmai può essere interessato ad un diritto di opzione call sulle partecipazioni minoritarie per assumere il controllo definitivo della società. A ciò si aggiunga che la concessione della opzione put, a prezzo fisso o meno, avviene quasi sempre nell’ambito di accordi complessi che introducono poteri quanto meno di veto, le così dette minoranze di blocco, sia a livello assembleare che di organo amministrativo tali da rendere assai difficoltoso, se non impossibile (29), ipotizzare l’influenza determinante addirittura dello stesso socio di maggioranza. Orbene per dare una effettività a questo requisito, bisognerebbe ritenere che anche la sola titolarità di alcuni poteri limitati di gestione o del solo potere di veto configurino ipotesi tali da concretizzare il rischio di gestione poco avveduta censurato dal divieto di patto leonino.

Le perplessità sopra esposte si sono, immancabilmente, manifestate nella giurisprudenza di merito. Ne costituiscono un esempio le citate decisioni del Tribunale di Milano, il quale con cadenza semestrale ha emesso tre decisioni nelle quali i giudici chiamati a pronunciarsi hanno dimostrato, proprio in merito alla verifica della meritevolezza della clausola ovvero dell’effettiva influenza gestoria del titolare del diritto di opzione put, criteri di giudizio assai differenti. 

La clausola di put & call e la opzione put a prezzo fisso come garanzia prestata da soggetto terzo

Alcuni esempi pratici possono ancor meglio evidenziare l’illogicità dell’applicazione estensiva e rigorista del divieto di patto leonino ad accordi extrasociali aventi per oggetto la concessione di una opzione a prezzo fisso. Per essere più precisi gli esempi sotto riportati hanno la funzione di far emergere con maggior chiarezza come lo spostamento della funzione del divieto da strumento di tutela dei soci deboli dal socio “leo” a regola a tutela del mercato, assuma caratteristiche eccessivamente astratte e separate dalla vita societaria ove se ne estenda l’applicazione ad accordi extrasociali.

Il primo caso è rappresentato dalle clausole di opzione di vendita e di acquisto incrociate, le così dette opzioni put and call. Orbene se a contenuto sostanzialmente paritetico, la contrapposizione di queste due pattuizioni non consente di individuare un socio “leo” in quanto il rischio assunto da chi si obbliga a comprare a prezzo fisso, qualora la società in pendenza della opzione perda valore, è bilanciato dal suo diritto di acquistare le medesime partecipazioni al medesimo prezzo qualora la società, in pendenza della opzione, acquisti valore. Tale logica considerazione, qualora applicata alla luce della vecchia teoria che individuava la funzione del divieto di patto leonino in una funzione antiusuraria, avrebbe portato a concludere per la liceità della pattuizione.

Più complessa è la sua valutazione alla luce della rinnovata ratio che individua l’interesse tutelato nell’interesse del sistema a che i soci esercitino i propri diritti di gestione della società in modo avveduto e interessato. Infatti in questo caso se è vero che il socio titolare della opzione put rimane escluso dal rischio di subire le perdite, il suo interesse ad assumere scelte eccessivamente rischiose è vanificato dal fatto che se l’andamento della società fosse, fortunatamente, molto positivo esso sarebbe esposto all’esercizio da parte dell’altro socio della opzione call.

Ancor più complesso è l’esame della parte opzione call dell’accordo, perché se è vero che l’opzione call priverebbe il socio da essa gravato dal diritto agli utili, dovrebbe valutarsi la costruzione del prezzoper poter concludere definitivamente in questo senso (30). L’analisi tuttavia può essere evitata perché è ragionevole sostenere che la nullità della opzione put, per carenza di interesse, comporterebbe la nullità della opzione call in ragione del disposto dell’art. 1419 c.c.

In sintesi anche l’accordo di put & call, che di fatto distribuisce il rischio pariteticamente tra due soci, secondo l’indirizzo più rigorista, potrebbe essere nullo. Non sono dati precedenti in termini, anche se esaminando la fattispecie della pronuncia Laminatoio di Buttrio si può notare che le corti di merito avevano concluso per la nullità della clausola di opzione put pur in presenza di una opzione di segno contrario a favore del socio gravato dall’obbligo di acquisto, senza dedicare però alla specularità, o meno, dei diritti spettanti ai soci alcuna attenzione.

Un altro esempio in cui la conclusione non sembra coerente con il dettato normativo è quella della opzione put rilasciata dal socio venditore dell’intera sua partecipazione a favore del soggetto compratore. Sicuramente si tratta di ipotesi non molto frequente nel mercato, ma pur sempre possibile. In questo caso un socio che intenda alienare completamente la propria partecipazione in una società, onde agevolare la propria cessione a favore di un compratore indeciso, ben potrebbe pattuire con lo stesso una opzione put che gli garantisca l’investimento.

Orbene l’esito pratico sarebbe comunque quello di esentare il nuovo socio titolare della put dal rischio delle perdite, ma la pattuizione sarebbe assunta tra un socio (l’acquirente) ed un soggetto del tutto estraneo alla società (il venditore).

L’esempio, come detto di scuola, è utile per far emergere con maggiore chiarezza come la teoria che attribuisce al divieto di patto leonino la funzione di impedire una eccessiva deresponsabilizzazione del socio esentato dalle perdite, applicata ad accordi extrasociali, contenga una contraddizione in termini: da un lato colpisce una pattuizione bilaterale tra soggetti privati, dall’altro non attiene alla difesa del “socio debole” contro il “socio leo”, astraendosi totalmente dal rapporto societario.Ne deriverebbe che anche una opzione put a prezzo fisso con funzione di garanzia rilasciata da un soggetto terzo rispetto alla società, nel senso più assoluto in quanto nemmeno più socio, dovrebbe comunque portare alla invalidità della pattuizione. In verità la conclusione apparirebbe quanto meno abnorme visto che si punirebbe con la nullità un accordo contrattuale totalmente estraneo alla società. 

La nullità delle opzioni put a prezzo fisso: una facile soluzione

Uno dei più lucidi filosofi contemporanei (32), ha avuto modo di dire: «Penso che il modo migliore per risolvere i problemi sia evitarli. Nessun problema è tanto grosso o complicato da non potervi sfuggire». L’aforisma ben si adatta al tema trattato dal presente scritto, visto che i problemi creati dalla estensione dell’applicazione dell’art. 2265 c.c. alle società di capitali e, soprattutto, agli accordi extrasociali potrebbero essere evitati tornando ad una interpretazione più rigorosa e sistematica dell’articolo, limitando la sua applicazione alle società di persone e, soprattutto, alle previsioni statutarie. Detta soluzione troverebbe supporto negli argomenti sopra esposti in merito alla natura delle società di persone, tale da rendere più attuale il rischio di una gestione determinate della società da parte del socio leo, ed alla usuale autonoma meritevolezza delle clausole di opzione put a prezzo fisso inserite in accordi extrasociali o, ancora, all’impossibilità di ipotizzare poteri gestori così determinanti in capo a soci titolari della opzione put, e consentirebbe l’utilizzo di una clausola, nelle sue molteplici declinazioni, dotata di una notevole funzione di agevolazione della conclusione di accordi di investimento.

D’altro canto si ritiene che anche volendo accettare l’estensione dell’ambito applicativo del divieto di patto leonino alle pattuizioni extrasociali il risultato non muterebbe di molto. La natura teorica del rischio di ottenere una gestione poco avveduta da parte del socio indirettamente esentato dalla partecipazione alle perdite, non può che far ritenere meritevole di tutela la pattuizione parasociale che, viceversa, attiene alla determinazione del prezzo di cessione di una partecipazione e che trova giustificazione nell’assetto contrattuale trovato da soggetti terzi rispetto alla società.

Tale conclusione assumerebbe poi oggettiva validità qualora si ottenesse una decisione definitiva sulla meritevolezza del fine di garanzia, fine che ha trovato indiretta legittimazione nella stessa sentenza della Corte di Cassazione del 1994 e che, in maniera esclusiva o concorrente con altri scopi, è sempre presente all’atto della pattuizione di opzioni put a prezzo fisso.  La vera differenza tra le due soluzioni è che la seconda, riservando al giudice di merito una valutazione caso per caso, inevitabilmente crea dei precedenti interpretabili quando non discordi, il che è particolarmente gravoso per il sistema vertendosi in materia di nullità.

(Prima pubblicazione su Le Società, IPSOA, 2/2014)

 


(1) L’opzione di acquisto, o opzione call, ha una minore rilevanza nella pratica quindi non sarà oggetto di specifica analisi, se non incidentalmente.
(2) In realtà le pattuizioni in uso solitamente prevedono altresì l’applicazione di interessi convenzionali, nonché l’incremento ovvero la diminuzione del prezzo originario in ragione di eventuali versamenti a patrimonio netto ovvero di distribuzione di utili. Come si dirà tali condizioni, seppur mai oggetto di specific esame, dovrebbero influenzare non poco il giudizio sulla legittimità o meno della pattuizione.
(3) Medesima facoltà è concessa per le società di capitali, dagli artt. 2346 c.c. per le s.p.a. e art. 2468 c.c. per le s.r.l.
(4) Per una ricostruzione della ratio normativa vedi Lodo Minervini, Cuffaro, Giorgianni, 7 aprile 2000, in Contr. e impr., 2000, 959 ovvero A.M. Perrino, in questa Rivista, 2012, 1165.
(5) Nel corso della pubblicazione del presente articolo, il Tribunale di Milano ha pronunciato una sentenza, n.12213 del 19 settembre 2013, che conferma l’indirizzo giurisprudenziale favorevole alla legittimità delle opzioni put a prezzo fisso.
(6) In questa Rivista, n. 2/1995, 178, con nota a sentenza di D. Batti.
(7) «Il divieto del c.d. patto leonino posto dall’art. 2265 c.c. (ed estensibile a tutti i tipi sociali, attenendo alle condizioni essenziali del tipo “contratto di società”) presuppone una situazione statutaria (…) caratterizzata dalla esclusione totale e costante di uno o di alcuni soci dalla partecipazione al rischio di imprese e dagli utili, ovvero da entrambe. Pertanto, esulano dal divieto le pattuizioni regolanti la partecipazione alle perdite e agli utili in misura difforme dall’entità della partecipazione sociale del singolo socio, sia che si esprimano in una misura di partecipazione difforme da quella inerente ai poteri amministrativi (situazione di rischio attenuato), sia che condizionino in alternativa la partecipazione, o la non partecipazione, agli utili o alle perdite al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti. «Il divieto di esclusione dalla partecipazione agli utili o alle perdite deve essere riguardato in senso sostanziale, e non formale, per cui esso sussiste anche quando le condizioni della partecipazione agli utili o alle perdite siano, nella previsione originaria delle parti, di realizzo impossibile e nella concretezza determinino una effettiva esclusione totale da dette partecipazioni».
(8) Il punto è soggetto ad interpretazione. Il testo della sentenza sembrerebbe fare riferimento alla ipotesi di una pattuizione parasociale avente per oggetto direttamente la esplicita esclusione del socio dalla partecipazione a utili e/o a perdite. Ne consegue, ad avviso di chi scrive, che l’ipotesi di una opzione put a prezzo fisso, rientrerebbe in quella disamina di meritevolezza autonoma rispetto alle regole di governance.
(9) V. nota 3 e G. Minervini, Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino, in Contr. e impr., 1998, 771.
(10) Viene ad esempio ritenuto valido il patto mediante il quale un terzo o, in forza di un patto parasociale, un altro socio, si obbliga a tenere indenne il socio dalla partecipazione alle perdite; ma a condizione che sia esclusa anche la sua partecipazione alla formazione della volontà sociale, essendo principio di ordine pubblico quello che si basa sulla correlazione potere- rischio (F. Galgano, Trattato di diritto civile, vol. IV).
(11) In merito alla non configurabilità di violazione del divieto di patto leonino per assenza del requisiti di costanza in caso di esclusione di partecipazione agli utili o alle perdite sottoposta a condizioni si rinvia anche alla sentenza della Corte di Cassazione n. 642 del 21 gennaio 2000, in questa Rivista, 2000, 697, la quale ha sancito la legittimità delle: «clausole che contemplino la partecipazione al rischio di impresa o agli utili e alle perdite in misura diversa dalla entità della partecipazione sociale del singolo socio, sia che si esprimano in misura difforme da quella inerente ai poteri amministrativi, sia che condizionino in alternativa la partecipazione o non partecipazione agli utili o alle perdite al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti».
(12) V. nota 3.
(13) Trib. Milano, sez. VIII, 30 dicembre 2011, Giud. Riva Crugnola - Dea Partecipazioni s.p.a c. Sopaf s.p.a., in questa Rivista, 2012, 1158.
(14) «Il patto parasociale avente ad oggetto l’impegno della promittente di procurare la cessione dell’intera partecipazione della promissaria ad un prezzo non inferiore a quello corrisposto da quest’ultima per l’acquisto, maggiorato di interessi ad un tasso convenzionale prestabilito nonché dei versamenti a patrimonio netto nelle more compiuti dalla promissaria, è elusive della ratio della disciplina posta dall’articolo 2265 c.c. e rispondente ad interessi non meritevoli di tutela».
(15) Il caso pratico in effetti appariva abbastanza estremo non essendo previsto alcun limite temporale per l’esercizio dell’opzione né la sua efficacia era sottoposta a condizione.
(16) Trib. Milano, sez. VIII, 13 settembre 2011 - Giud. M. Galioto - Mittel Generale investimenti s.p.a contro W.B, in questa Rivista, 2012, 1163.
(17) Trib. Milano, sez. VIII, 9 febbraio 2012 - Giudice M. Galioto - Assietta Private Equity s.p.a. contro F.T. e altri, in questa Rivista, 2012, 369, con commento V. Salafia.
(18) Nel caso giudicato nell’ordinanza, oltre che limitata nel tempo, 5 anni, l’opzione era stata addirittura pattuita dopo la conclusione dell’accordo di investimento che aveva portato il fondo ad investire nella società target.
(19) L’indirizzo, contrariamente a quanto oggi appare da alcuni commenti, era tutt’altro che univoco fin dal suo esordio. Sul punto vedasi “Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino” G. Minervini, in Contr. e impr., 1998, 771 e ss., e “Circolazione delle azioni e patto leonino”; G. Sbisà, in Contr. E impr., 1987, 816 e ss.
(20) Art. 2247 c.c. «Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili».
(21) Art. 2476 c.c. comma VII: «Sono altresì solidalmente responsabili con gli amministratori, ai sensi dei precedenti commi, i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi».
(22) V. precedente nota 3.
(23) V. G. Sbisà, Circolazione delle azioni e patto leonino, in Contr. e impr., 1987, 816 e ss.
(24) Ad esempio l’argomento potrebbe portare ad una più attenta verifica dell’effettivo potere del socio di indirizzare la gestione amministrativa della società.
(25) In giurisprudenza, tra le molte, Cass. civ. 16 novembre 1957, n. 3741, «ll contratto in frode alla legge è viziato a cagione di una consapevole divergenza fra la sua causa tipica e la determinazione causale delle parti, tale da rilevare la fraudolenza dell’interesse che, in concreto, ha determinato la sua conclusione, come mezzo per eludere la disposizioni di una norma imperativa».
(26) Ad esempio affrontano il problema dell’onere probatorio per chi solleva la natura elusiva della pattuizione, ovvero la rilevanza dei motivi nel contratto o ancora l’eventuale esistenza di un vizio della causa, tutti argomenti che potrebbero incidere notevolmente sul giudizio di meritevolezza.
(27) Altri esempi di contratti che hanno di fatto il medesimo effetto sono citati nelle conclusioni degli arbitri Prof. Minervini e Cuffaro, in replica alla dissent opinion del terzo arbitro, nel Lodo di cui alla precedente nota 3, dove si legge «Non si esige, per sottrarre il patto parasociale al divieto di patto leonino,un interesse qualificato del soci che vi partecipa: nel caso di credito pignoratizio di azioni, il creditore pignoratizio ha, rispetto al buon andamento della società, non più che l’interesse alla conservazione economica della garanzia del suo credito, cioè non più che un interesse di creditore» ed ancora, in modo forse più puntuale «Comunque, la vendita a termine di azioni e il riporto su azioni sono contratti a pieno titolo validi, nonostante che nessun interesse abbiano i soci, pro tempore gestori, al buon andamento della società».
(28) Non è questo sicuramente lo scopo perseguito da un investitore industriale, il quale ha come obiettivo sia la redditività del proprio investimento sia l’estensione o il rafforzamento della propria azienda, né può esserlo per un investitore finanziario, quale un fondo, che seppur non interessato all’azienda ha come obiettivo l’incremento del proprio investimento. Tutti obiettivi che sarebbero comunque messi in pericolo da comportamenti gestionali non avveduti. Addirittura a medesima conclusione si può pervenire qualora l’investimento sia meramente finanziario, cioè rappresenti una modalità, consentita del sistema normativo e dalla stessa giurisprudenza, di finanziamento da parte di ente bancario. In tal caso infatti, semplicemente, l’investitore non avrebbe alcun interesse ad assunzioni di rischio non avvedute nella gestione.
(29) Il giudizio sarebbe rimesso alla determinazione di parametric certi per decretare quando si è in presenza di un potere del socio di determinare la gestione societaria in senso lato, ai fini dell’applicazione del divieto di patto leonino. Non risulta a chi scrive che sul punto si sia pronunciata né la giurisprudenza né la dottrina.
(30) In sintesi bisognerebbe verificare se la formula di determinazione del prezzo prevede o meno la restituzione degli utili eventualmente incassati dal socio gravato dall’opzione call in pendenza della stessa.
(31) Il caso è volutamente semplificato ai fini dello scritto. È evidente che una tale pattuizione nella realtà prevederebbe sempre un limite temporale e, presumibilmente, una condizione costituta dai risultati della società target. Ne conseguirebbe la legittimità della pattuizione per carenza del requisito di costanza.
(32) Charles M. Shulz, Linus, in Peanuts.
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